Il borgo è una frazione di Sessa Cilento da cui dista un paio di Km ed è ubicato nel parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Sorge alle pendici del Monte Stella a 560 metri sul livello del mare. Le origini del paese risalgono al X secolo e la sua comunità si sviluppò intorno a un monastero dedicato a San Mango che favorì la colonizzazione dei terreni circostanti attraverso vantaggiosi contratti agrari per i contadini . Anche dopo la distruzione del monastero, la comunità non si disgregò ma continuò a vivere in quella località che prese successivamente il nome di San Mango. Oggi gli abitanti svolgono una vita tranquilla, fieri delle bellezze architettoniche che si trovano al centro del borgo come la nuova chiesa e i Palazzi signorili appartenuti a importanti casate quali i Mendoza, i D’Aquino e i Del Giudice.
Ogni estate organizzano la sagra dello “U Sfriuonzolo”, il piatto tipico della zona che richiama tanta gente proveniente anche da altri paesi.
Nell'Archivio cavense numerosa è la documentazione sul villaggio di S. Magno (per metatesi poi S. Mango) e sul suo monastero, di cui ci sono pervenuti anche alcuni nomi di abati e priori. Il più antico documento pervenutoci è il più volte menzionato diploma del 994 dei principi di Salerno che informa anche della nuova politica instaurata dal sacro palatio salernitano di protezione dei cenobi italo-greci disseminati sul territorio dell’odierno Cilento e per la maggior parte forse ancora ignoti al governo centrale. Con esso lo spoletino Giovanni di Lamberto e il figlio coreggente Guaimario furono larghi di concessioni ad Andrea, igumeno «monasterio vocabulo sancti magni, in loco turano, actus lucanie». Ubicazione semplificata nei documenti successivi, perché l'importanza via via assunta dal monastero dispensò notai e giudici di menzionare nei contratti la località Turano. Si tratta di un diploma assai importante, come ho fatto rilevare, sia perché mostra l'esistenza del villaggio di Cilento, sia per i molti toponimi indicanti confini che consentono una migliore collocazione in mappa di monasteri, chiese, terreni e mulini posseduti da quel cenobio, la cui fondazione, perciò, si può far risalire almeno ai primi del X secolo. I beni menzionati nel documento consistono non solo nelle terre circostanti il monastero, dissodate dall'operosità dei monaci italo-greci e dalle famiglie che li seguirono o si aggrupparono intorno alle edicole da essi costruite, ma anche nelle chiese ivi menzionate e a quel monastero soggette, come è esplicitamente detto nel diploma. Attigui alle chiese erano celle e terreni dipendenti, germinati dal più antico di S. Mango e correlati tra loro, secondo i precetti di S. Teodoro Studita.
Apprendiamo da un memoratorio, forse dello stesso igumeno Andrea, stilato nello stesso palazzo principesco di Salerno nel 1008, che i conti di Magliano, Adalberto e Rodelgrimo, confermarono all’igumeno la donazione al monastero di S. Magno della chiesa e del monastero di S. Maria di Camporosso costruita dal loro fratello Guiselgardo che, vestito l'abito monastico, ne divenne l'abate.
Al monastero di S. Magno (quattro omonimi per il Di Meo), ma a un altro igumeno Andrea, venne venduto un terreno con vigna a Persiceto da quattro fratelli e dalla loro madre nel 1044. Nel 1047 forse lo stesso igumeno acquistò da un certo Fasano, figlio del fu Leone, terre a Persiceto per dieci tarì. Del 1049 è una convenzione tra il monastero e un certo Golferio circa i beni posseduti in comune a Lustra. Nel 1053, Maraldo, figlio di Cunteni, donò al monastero tutti i beni posseduti in Lucania e a Cilento. Nel 1063, un certo Golferio, figlio del fu Radoaldo, confermò al monastero di S. Mango la donazione di terre a Persiceto e a Cilento e di mulini presso il fiume di Lustra. Nel marzo del 1078, Maraldo, figlio del fu Giovanni Carsico, vendette all'abate Abalsamo, per 24 tarì d’oro, la metà di quanto possedeva a Persiceto in comune con Mauro, figlio del chierico Giovanni, con il diritto per il venditore di «erba pabere et esca colligere et arbores iusta ratione incidere». Nel dicembre dello stesso anno Rainaldo, Orso e Landemario in Cusara, avendo chiesto «havitum sanctimoniale induere» donarono al cenobio tutti i loro beni esistenti a S. Magno e in altri luoghi di Lucania.
La prima notizia del passaggio del monastero di S. Magno all’Abbazia si desume da una vertenza tra il monastero predetto e Giovanni, figlio del fu Lamberto, di Capaccio. Innanzi al giudice Lando, l'abate Pietro nell'agosto del 1094 accusò il convenuto «qua malo hordine et sine ratione intrasset ipso johannes intus rebus de sancta lucia», offerte al monastero, e anche «intus preceptum sancte trinitatis». Nel 1112, Ruggiero di Sanseverino offrì al monastero di S. Mango un suo vassallo, abitante in «Valle molendinorum», con moglie, figli, nipoti e beni posseduti.
Nell'Archivio della Badia vi sono ancora altre 47 pergamene che menzionano comunque S. Mango, uno dei più fiorenti monasteri sorti nel territorio.
Di S. Mango è pure ripetuta notizia nel Registro dell’abate Tommaso. Il 3 settembre 1261 nominò priore di quel monastero (potevano essere anche laici) Guglielmo di Serpito, il quale giurò di «bene regere et meliorare» la proprietà e di consegnare annui 25 rubbi di frumento per seme, 9 rubbi di derrate per il biforco, 4 di frumento per i villani, le usuali spese per il campo di Licosa e come «salutes» a Pasqua e a Natale il solito maiale. Fidejussori del contratto per il monastero erano il giudice Roberto e il bàiulo Riccardo, ambedue di S. Magno.
Il Ventimiglia, nell'assicurare dell'esistenza ancora ai suoi tempi di ruderi del monastero, informa dei locali feudi di Giovanni di Griso, di Giovanni Giudice e del feudo Vatollese ai tempi dell'abate Maynerio con villani angarari, feudatari e angarari semplici, i primi soggetti a pesi minori verso la Badia a fronte dei secondi.
Nel 1362 il monastero aveva, tra le celle dipendenti, anche S. Felice e S. Marco ubicati sulle falde della stella; nella convocazione del 1382 tra il vescovo di Capaccio e la Badia, il presule riconobbe dipendente dalla Badia anche «monasterium sancti Magni cum cellis suis».
Dopo il passaggio della baronia ecclesiastica della Badia a re Ladislao (1410) non è più notizia anche del villaggio e del monastero di S. Magno che il Ventimiglia crede abbandonato dai monaci. Il villaggio, passato ai Sanseverino, subì le sorti della famiglia: in quel periodo una parte di esso era nota come «Santo Magno castri rocci» (S. Mango del castello di Rocca).
Nel 1553 S. Mango fu venduto a Ferdinando Loffredo dei marchesi di Trevico diviso in due parti: S. Mango e S. Mango castri rocci.
Successivamente S. Mango passò al duca del Pezzo e da costui al figlio Tiberio, il quale nel 1601 vendette S. Mango, con feudo rustico della scoccia ad Antonio Caracciolo, duca di Boiano. Il figlio Mauro nel 1612 alienò i due feudi a favore di Giorgio Mendoza, il quale nel 1620 li cedette a Giovanni Caputo. Nel 1623 quest’ultimo lo vendette a Tommaso d’Aquino, principe di Castiglione. Giovan B. d’Aquino, nel 1678, alienò i feudi a favore del duca Gian Francesco Sanfelice, nella cui famiglia i feudi vennero a lungo tenuti.
Nel 1747, Gennaro Sanfelice vi rinunziò a favore del figlio Gerolamo che li alienò nel 1751 a favore di Domenico del Giudice, i cui discendenti si fregiarono, poi, del titolo di baroni di S. Mango.
Il Giustiniani lo colloca alla voce “Santomagno Castrirocci” come in tutte le «situazioni», ma «meglio andrebbe detta la Terra Santomagno» e cioè dal monastero da cui prese nome il villaggio.
LATITUDINE: 40.2645549
LONGITUDINE: 15.059540800000036
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